Il 7° giorno
La luce eterna

Il 7° giorno, Cupola della Genesi. Basilica di San Marco, Venezia (XIII secolo). Cristo è la Parola creatrice di Dio e, con i suoi angeli, conduce l’umanità dalle tenebre alla luce del 7° giorno, che Egli benedice.
Dopo la tappa del sesto giorno, nel settimo giorno non c’è più il passaggio dalle tenebre alla luce; tutto è compiuto e l’umanità può dimorare eternamente nella luce della contemplazione divina, nella pienezza del Suo amore:
“La notte scomparirà, non avranno più bisogno della luce di una lampada o della luce del sole, perché il Signore Dio li illuminerà; regneranno nei secoli dei secoli”. (Apocalisse 22, 5).
Essere in questa luce significa conoscere la portata dell’amore di Dio per ogni creatura, significa sperimentare questo amore per ognuna di esse, significa vedere ogni creatura in una luce diversa da quella della terra. Infatti, ciò che è nascosto verrà alla luce e, una volta perdonati i nostri errori, rimarranno solo le nostre aspirazioni più belle. Ci sarà un’armonia perfetta tra spirito e corpo. Il corpo, la carne trasformata e risorta, sarà l’espressione perfetta dello spirito che lo anima. Ecco le parole che gli apostoli usano per parlarci di questo:
“Amati, già adesso siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è ancora stato manifestato. Sappiamo che quando sarà manifestato, saremo simili a Lui, perché Lo vedremo come Egli è.” (1 Giovanni 3, 2-3).
E San Paolo ci dice anche che sapremo come siamo stati conosciuti da Dio, come Lui ci ha amato:
“Attualmente vediamo in modo confuso, come in uno specchio; in quel giorno vedremo faccia a faccia. Al momento la mia conoscenza è parziale; in quel giorno conoscerò perfettamente, come sono stato conosciuto. Ciò che rimane oggi è la fede, la speranza e l’amore (agápē in greco); ma il più grande dei tre è l’amore“. (1 Corinzi 13, 12-13).
Quindi ameremo ogni essere umano con lo stesso amore che Dio ha per lui. Infatti, Gesù stesso ci dice che saremo come gli angeli. Gli angeli non conoscono questo mondo attraverso i sensi, come noi, perché non hanno un corpo, ma percepiscono la realtà spirituale, l’essere più profondo di ciascuno di noi, perché contemplano il volto di Dio e nella Sua luce, nello sguardo del Suo amore, conoscono ciascuna delle Sue creature, le contemplano in Dio, attraverso gli occhi di Dio:
“Ma quelli che sono stati giudicati degni di partecipare al mondo futuro e alla risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito, perché non possono più morire: sono come gli angeli, sono figli di Dio e figli della risurrezione”. (Luca 20, 35-36).
San Paolo fu elevato al terzo cielo, ebbe una visione della realtà celeste e divina e ci dice questo sulla trasformazione del nostro essere, del nostro corpo e del nostro spirito:
“Ma qualcuno potrebbe dire: “Come risorgono i morti, con che tipo di corpo vanno?”. – Ci pensi! Ciò che si semina non può tornare in vita senza prima morire; e ciò che si semina non è il corpo della pianta che crescerà, ma un semplice seme: il grano, per esempio, o qualcos’altro. E Dio gli dà un corpo come ha voluto: ad ogni seme un corpo particolare. Ci sono molti tipi di carne: un tipo è la carne dell’uomo, un altro tipo è la carne della bestia, un altro tipo è la carne dell’uccello, un altro tipo è la carne del pesce. Ci sono corpi celesti e corpi terrestri, ma la luminosità dei corpi celesti è diversa da quella dei corpi terrestri; la luminosità del sole è diversa da quella della luna, la luminosità delle stelle è diversa da quella della luna, e ogni stella ha una luminosità diversa. Così è per la resurrezione dei morti. Ciò che è stato seminato deperibile risorge imperituro; ciò che è stato seminato senza onore risorge nella gloria; ciò che è stato seminato debole risorge nella potenza; ciò che è stato seminato corpo animato dall’anima (psykhḗ) risorge corpo spirituale (pneumatikón); perché se c’è un corpo animato dall’anima (psykhḗ), c’è anche un corpo spirituale. La Scrittura dice: Il primo uomo, Adamo, divenne un’anima vivente (psykhḗ); l’ultimo Adamo – Cristo – divenne uno Spirito vivificante (pneũma). Non viene prima ciò che è dello Spirito (pneumatikón), ma ciò che è dell’anima (psykhikón); solo dopo viene ciò che è dello Spirito (pneumatikón)”. (1 Corinzi 15, 35-46).
Questo testo ci parla anche della costituzione del nostro corpo: il corpo animale è mosso dall’anima, cioè il centro che riceve ed elabora le percezioni dei sensi, tutto ciò che anima l’essere umano e l’animale (la parola animale deriva dal latino anima e significa ciò che ha un’anima). Il testo della Genesi definisce l’essere umano come un’anima vivente: “Il Signore Dio plasmò l’uomo con la polvere del suolo; soffiò nelle sue narici l’alito della vita e l’uomo divenne un’anima vivente (nephesh ḥayyah נֶפֶשׁ חַיָּה)”. (Genesi 2, 7). Ora, questa anima vivente richiede, per l’essere umano, di essere guidata dallo Spirito, che lo porta a cercare le realtà celesti, dell’alto, le realtà eterne, perché è a queste realtà che l’essere umano è destinato. È la realtà dello Spirito che è chiamato a cercare, ed è lì che dimorerà e troverà riposo. Le sette tappe, dalle tenebre alla luce, ci mostrano come gli esseri umani possano stabilirsi in modo permanente ed eterno in questa pace, in questa unificazione della loro volontà, che un giorno non sarà più divisa tra la ricerca dei beni terreni e le realtà celesti: rimarrà solo l’amore. Oggi sono la fede e la speranza a dirigere la nostra vita verso quel bene eterno che è l’amore, ma un giorno rimarrà solo l’amore. (Per saperne di più sulle sette tappe, vedere l’articolo Genesi 1,1 – 2,3 I sette giorni, tappe dell’amore).
Nel testo di San Paolo sopra riportato, le diverse tappe discusse nei giorni precedenti sono spiegate con la menzione dei diversi elementi della creazione, della natura. L’essere umano, infatti, attraversa diverse tappe: prima è seme, poi ci sono gli animali che rappresentano le sue tendenze, le sue azioni, poi viene portato a diventare un corpo celeste, luminoso come le stelle del cielo. E poi, nell’ultima tappa, viene portato a condividere la vittoria definitiva sul male, questo trionfo della luce, della vita secondo lo Spirito di Dio, nel pieno amore di Dio, che è il settimo giorno.
Allora il nostro corpo sarà perfettamente conformato al nostro spirito, un corpo spirituale che sarà in grado di manifestare in tutta chiarezza l’amore che ci anima, che ci dà vita, l’amore che abbiamo per gli altri. Quindi San Paolo ci invita fin d’ora a cercare le realtà spirituali, ossia che lo Spirito d’amore di Dio sia colui che ci guida nella nostra vita e nelle nostre azioni.
“Vi dico: camminate sotto la guida dello Spirito Santo e non sarete tentati dai desideri della carne. Perché le tendenze della carne si oppongono allo Spirito, e le tendenze dello Spirito si oppongono alla carne”. In effetti, c’è uno scontro qui che vi impedisce di fare tutto quello che vorreste fare”. (Galati 5, 16-17). Ecco dove ci portano tutte queste tappe, che possiamo percorrere con l’aiuto di Dio; ecco il significato dei sette sacramenti, che ci aiutano ogni volta a condividere la vittoria della luce sulle tenebre.
Ecco la continuazione della lettera di San Paolo ai Corinzi:
“Il primo uomo è della terra, ma il secondo viene dal cielo. Come colui che è dalla terra, così quelli che sono terrestria; come colui che è dal cielo, così i celesti. E come abbiamo portato l’immagine della terra, così porteremo l’immagine del cielo. Vi dichiaro questo, fratelli: la carne e il sangue non sono in grado di ereditare il regno di Dio e ciò che è perituro non eredita ciò che è imperituro. Questo è il mistero che vi dico: non tutti moriremo, ma tutti saremo cambiati, e questo in un momento, in un batter d’occhio, quando la tromba suonerà alla fine. Perché quando la tromba suonerà, i morti risorgeranno imperituri e noi saremo trasformati. Perché questo nostro essere deperibile deve indossare ciò che è imperituro; questo essere mortale deve indossare l’immortalità. E quando questo essere deperibile avrà indossato ciò che è imperituro, quando questo essere mortale avrà indossato l’immortalità, allora si adempiranno le parole della Scrittura: La morte è stata inghiottita nella vittoria”. (1 Corinzi 15, 47-54).
Anche qui, nelle parole di San Paolo, ci sono i termini dei primi giorni, le prime tappe in cui la parola terra si riferisce all’essere umano, questa terra che si inaridisce se non riceve l’acqua dall’alto, lo spirito celeste di Dio, che la anima e la fa rivivere, che la rende una nuova creazione. In questo modo, l’uomo terreno, guidato dallo Spirito, diventa celeste e, quando risorgerà, la luce avrà dissipato tutte le tenebre e il corpo spirituale sarà l’espressione perfetta dello Spirito. (Per saperne di più sul settimo giorno, vedere Genesi 1, 1 – 2, 3 I sette giorni, tappe dell’amore).
Le tappe della vita di Gesù e la Settimana Santa
Pasqua

La Gerusalemme celeste, battistero della basilica di Saint-Maurice, Svizzera. Mosaico di Madeline Diener. Secondo la visione di San Giovanni nel Libro dell’Apocalisse, dall’agnello sgozzato vittorioso scorrono fiumi di acqua viva che danno vita alla Gerusalemme celeste, dove l’amore regna eternamente nei cuori dell’umanità riconciliata. L’agnello indossa un nimbo in cui è inscritta la croce, perché l’agnello è Cristo. È Lui che guarisce i malati (a sinistra) ed è Lui che Santo Stefano contempla quando viene lapidato (a destra). Sono l’amore di Cristo, la Sua vita, il Suo Spirito, offerti sulla croce, a vincere sul male e sulla morte.
Ora arriviamo al giorno della resurrezione, e se il sesto giorno era un venerdì, la resurrezione all’alba del terzo giorno dalla morte di Gesù viene celebrata la domenica. È importante comprendere la relazione tra il settimo giorno della creazione, il giorno in cui è stata compiuta tutta l’opera di salvezza dell’umanità, il giorno del riposo con Dio e il giorno in cui i cristiani celebrano la loro partecipazione alla festa eterna della pace di Dio. Infatti, il venerdì, quando Cristo manifesta l’amore di Dio per l’umanità, permette agli esseri umani di entrare in un rapporto filiale e di fiducia con Dio. I fedeli entrano in una relazione eterna con Dio, e coloro che celebrano e proclamano la loro fede nel battesimo entrano nella vita eterna, perché sono morti e risorti con Cristo, secondo le parole di San Paolo: “Nel battesimo siete stati sepolti con Lui e siete stati risuscitati con Lui mediante la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti”. (Colossesi 2, 12). La vita eterna significa essere nel Regno di Dio, ma questo Regno di Dio, come ci dice Gesù, è dentro di noi: “Non diranno: Eccolo qui, o: eccolo là. Perché ecco, il Regno di Dio è dentro di voi”. (Luca 17, 21). È quando riusciamo ad accogliere nel nostro cuore un fratello e una sorella in ogni essere umano, quando accettiamo la vita come un dono di Dio in tutte le sue forme, che il Regno dei cieli è dentro di noi.
È stato attraverso la sua morte che Gesù ha vinto il male, ed è stato allora che ha offerto il perdono di Dio a tutta l’umanità perduta. Anche noi possiamo partecipare a questa vittoria sul male, accettando il perdono di Dio. In questo modo, entriamo nel riposo di Dio. Questo è il vero significato del settimo giorno, quando si dice che Dio si è riposato dalla sua opera che consiste a condurre gli esseri umani alla piena illuminazione. Allora possiamo riposare in Lui e Lui in noi. Ecco perché quando Gesù parla del suo amico Lazzaro, morto da quattro giorni, o di altre persone morte che risusciterà, dice sempre che stanno riposando. La gente gli dice che sono morti, ma Gesù insiste: riposano. Tuttavia, ci sono anche persone vive che, pur essendo in possesso di facoltà vitali, sono morte, perché sono morte alla vita dello Spirito, morte al legame d’amore con Dio e con il prossimo. Quindi i cristiani credono che entrare in un rapporto filiale con Dio significhi già entrare nella vita eterna, e significa anche entrare nella dimensione dello spirito, dove il tempo non si misura più in giorni o settimane. Quindi, una volta completata l’ultima tappa, entriamo nell’eternità di Dio, il che spiega perché il giorno in cui Dio ha completato la sua opera, il giorno in cui ha finalmente portato la sua creatura a contemplare la luce del suo volto, è il settimo giorno, chiamato in ebraico shabbat, che significa “si riposò” o “si fermò” (vedere il 7° giorno nell’articolo Genesi 1,1 – 2, 3 I sette giorni, tappe dell’amore).
Ma il 7° giorno della Settimana Santa, sulla terra, corrisponde al giorno in cui Gesù fu deposto nella tomba, il giorno in cui si unisce a tutti i morti, passati e futuri, per condurli a Dio. Quindi, come possiamo parlare di questa realtà, che conosceremo solo dopo la nostra morte? Consiste nell’annunciare il giorno della resurrezione, il giorno della domenica come se fosse un ottavo giorno, un giorno fuori da questo tempo terreno, un giorno in cui viviamo come se fossimo già in cielo. È in questo giorno che i cristiani celebrano il banchetto celeste, il banchetto di nozze dell’Agnello, il matrimonio tra Dio e l’umanità, un pranzo in cui i due diventano uno, un pranzo in cui la vita divina si dona all’umanità come vero cibo. È per dimostrare che il settimo giorno segna il nostro ingresso nella vita eterna che i cristiani hanno chiamato il giorno successivo, quello della resurrezione, l’ottavo giorno. Ecco perché gli antichi battisteri sono ottagonali, per ricordarci questa realtà celeste. È allora che la vittoria sul male proclamata il settimo giorno si realizza sulla terra, nell’ottavo giorno, quando i ciechi vedono, i sordi sentono, gli zoppi camminano e i prigionieri sono liberati. È nella visione di Dio attraverso la fede che gli esseri umani trovano la loro vera natura di figli di Dio, figli della luce. È quando possono contemplare l’opera e la presenza di Dio che i loro occhi vedono veramente; è quando possono avere fede nella Parola di Dio e metterla in pratica che sentono e camminano verso di Lui, incontrando e servendo il prossimo; è quando si sono liberati dall’incatenamento delle violenze perdonando l’offesa che non sono più prigionieri. Ecco perché i profeti annunciarono che, dopo aver contato sette volte sette anni, si sarebbe dovuto proclamare un anno sabbatico, il cinquantesimo anno durante il quale gli esseri umani avrebbero potuto nutrirsi dei prodotti della terra senza lavorare, recuperare i loro beni e liberarsi dalla schiavitù. È questo anno sabbatico che Gesù è venuto a portare sulla terra nel cuore degli uomini, è il Regno di Dio che si è avvicinato a noi. Quindi, quando Gesù legge le parole del profeta Isaia sull’anno sabbatico, dice che si sta adempiendo oggi:
“Gli fu consegnato il libro del profeta Isaia. Aprì il libro e trovò il passo in cui è scritto: Lo Spirito del Signore è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione. Mi ha mandato a portare la Buona Novella ai poveri, a proclamare la liberazione dei prigionieri e il recupero della vista ai ciechi, a liberare gli oppressi, a proclamare un anno favorevole del Signore”. (Luca 4, 17-19)
E quando guariva le persone dalle malattie, significava che poteva guarirci dai nostri mali spirituali e portarci questa liberazione da ogni male, questa vittoria sulla morte che ci tiene prigionieri:
“In quell’ora, Gesù guarì molti dalle loro malattie e dalle loro infermità e dagli spiriti maligni da cui erano afflitti, e diede la vista a molti che erano ciechi. Poi disse a quelli che erano stati inviati da lui: “Andate a riferire a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi ricevono la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano e i poveri ricevono la Buona Novella”. (Luca 7, 21-22).
La relazione con Dio e con il prossimo
Il pranzo eucaristico

Cristo benedice il pranzo eucaristico. Mosaico di Sant’Apollinare Nuovo, Ravenna (VI secolo). Come nell’ultima cena del Giovedì Santo, dopo la partenza di Giuda, solo undici apostoli sono seduti su uno ‘stibadium’ o ‘tavolo a sigma’ (secondo le antiche usanze greche e romane) in un semicerchio intorno al pranzo eucaristico. I pani e i pesci sono sul tavolo, come nella moltiplicazione dei pani e dei pesci e nell’apparizione di Gesù risorto agli apostoli sul lago di Tiberiade. Infatti, il significato di questo pranzo è stato annunciato nel miracolo della moltiplicazione e nella realtà della comunione con Cristo risorto e della Sua presenza con noi realizzata dopo la Sua morte e risurrezione.
La gioia della vita eterna, la felicità del Regno dei cieli, è rappresentata da un banchetto di nozze. San Giovanni, nella sua visione delle realtà divine eterne, ci dice questo:
“Rallegriamoci, esultiamo e diamo gloria a Dio! Perché le nozze dell’Agnello sono arrivate e la sua sposa si è vestita di abiti eleganti per Lui. Gli è stata data una veste di lino fine, bella e pura”. Il lino, infatti, rappresenta le azioni giuste dei santi. Poi l’angelo mi disse: “Scrivi: ‘Beati coloro che sono invitati alle nozze dell’Agnello'”. E aggiunse: “Queste sono le vere parole di Dio”. (Apocalisse 19, 7-9).
L’agnello innocente che fu ucciso era Gesù, e morendo offrì il suo perdono alla moltitudine, in altre parole, ci diede accesso a una relazione vivificante con Dio. Come figli di Dio, condividiamo il Suo Spirito, viviamo e siamo vivificati, guidati dal Suo Spirito. Esiste una vera comunione tra Dio e l’umanità che si è unita a Lui. In questa comunione, Dio ci aiuta a superare le prove a cui l’umanità si è esposta allontanandosi da Lui. Perdendo il legame con la sorgente comune di vita .gli esseri umani perdono il legame di fratellanza che li unisce e si dividono. Le loro prove saranno quindi causate da rivalità, gelosie e divisioni. L’umanità inciampa, zoppica, non riesce a trovare la sua strada nell’oscurità. Lasciarsi guidare da Dio significa anche riconoscere i nostri passi falsi, i nostri errori, i nostri peccati e accettare il suo perdono. Significa anche continuare il nostro cammino, imparare dai nostri errori, vedere più chiaramente. Anche se il nostro percorso sulla terra sarà sempre barcollante e pieno di insidie e prove, possiamo contare su di Lui per condurci fino alla luce, nonostante le nostre debolezze. Così Dio diventa uno con coloro che confidano in Lui e il Suo Spirito dimora in loro. Questa profonda comunione si realizza attraverso un pranzo in cui la Sua Parola ci nutre come pane e vino che possiamo incorporare, assimilare e vivere. È un banchetto di nozze, perché l’umanità è unita a Dio come una goccia d’acqua si unisce al vino per diventare una cosa sola, come una sposa è unita al suo sposo, condividendo le sue gioie e i suoi dolori. È un banchetto con una moltitudine di commensali, tutti uniti dai legami dell’amore che stanno celebrando, l’amore che ci ha finalmente riuniti con Dio. Questi ospiti sono vestiti a festa, come dice il Libro dell’Apocalisse, perché le azioni giuste sono un ornamento e una testimonianza della nostra unione con Dio, un riflesso dell’amore di Dio che abita in noi, che abbiamo indossato (vedere anche l’articolo Matteo 22, 1-14 La veste nuziale).
Ora, dobbiamo notare che Gesù ci parla di questo banchetto nuziale in molte parabole, e che uno dei punti centrali di queste storie è che tutti i posti devono essere riempiti, perché ci sono molti posti nel banchetto celeste. Gesù non disse forse ai suoi apostoli: “Vado a prepararvi un posto, e ci sono molti posti nella casa del Padre mio”? Certamente c’è un posto per ognuno dei Suoi figli; nessuno di loro può essere escluso. Il problema che appare nelle parabole di Gesù e nella vita reale è che alcuni ospiti non rispondono positivamente all’invito. Ecco perché Gesù è il buon pastore che va a cercare le pecorelle smarrite ed è pronto a rischiare la propria vita per loro. Non avrà pace finché alcuni posti rimarranno vuoti. Invierà dei servitori per trovare tutti gli emarginati, per invitare i mendicanti, gli storpi e tutti i tipi d’infermi. È la nostra umanità ferita che Lui vuole invitare, che vuole curare e guarire (vedere l’articolo Luca 14, 15-24 Gli invitati al pranzo).
Una volta a tavola, Gesù ci prepara ad entrare in comunione tra di noi, in comunione con Lui, con Dio, la fonte dell’amore che ci riunisce. L’abito nuziale è l’immagine delle opere buone, le opere di giustizia che sono necessarie per vivere veramente l’amore e metterlo in pratica. Si tratta di essere al servizio gli uni degli altri, come membra dello stesso corpo, ed è lì che troveremo la fonte della vita, una gioia e una pace profonda. Ma dobbiamo aver provato a mettere in pratica questo amore, per scoprire la gioia della vera comunione con il prossimo, per scoprire la presenza dello Spirito d’amore di Dio che ci riempie di una gioia che va oltre le nostre aspettative, oltre la nostra immaginazione. Ora, è vero che non è facile raggiungere questa comunione tra gli esseri umani, ed è per questo che Gesù invitò per prima cosa gli apostoli a farsi lavare i piedi da lui, perché accettare di farsi lavare i piedi significa ammettere gli uni di fronte agli altri che abbiamo bisogno di essere lavati, purificati e perdonati. Finché ci accusiamo a vicenda, questa comunione non è possibile. Ma ammettere l’uno di fronte all’altro che anche noi abbiamo una parte di responsabilità nelle nostre divisioni, chiedendo perdono per i torti che possiamo aver fatto al nostro prossimo, è la premessa per entrare in comunione gli uni con gli altri. Gesù ci dice:
“Perciò, quando vai a presentare la tua offerta all’altare, se ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia la tua offerta lì davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con tuo fratello e poi vieni a presentare la tua offerta”. (Matteo 5, 23-24).
Quindi, una volta riconosciute le nostre colpe, una volta riconosciuto che anche noi abbiamo una parte di responsabilità nelle divisioni di questo mondo, siamo pronti ad entrare in una comunione più profonda con gli altri. Prima ci facciamo lavare i piedi, cioè chiediamo perdono per ciò che calpestiamo ogni giorno, per la nostra quotidiana mancanza di amore, e poi possiamo sederci a tavola. Infatti, non ci può essere comunione tra gli esseri umani se uno si crede superiore agli altri; non possiamo amare il nostro prossimo come noi stessi se non lo consideriamo un membro del nostro stesso corpo. In questo modo, avremo fatto la nostra parte per riconciliarci l’uno con l’altro, riconoscendo i nostri torti, e poi potremo presentare l’offerta del pane e del vino. In questa offerta, siamo i semi di grano che saranno riuniti in un unico impasto, siamo i chicchi di uva che formeranno un unico vino. Infatti, Gesù dichiara che il pane e il vino di questo pasto sono il Suo stesso corpo e sangue. E possiamo essere membra del corpo di Cristo se siamo uniti dal Suo amore, uniti a Dio nella stessa fiduciosa relazione filiale e uniti gli uni agli altri dallo stesso amore della vita divina. Il cibo che Gesù dà è la vita divina che ci unisce a Lui, che possiamo assimilare come vero cibo, e che ci unisce gli uni agli altri, perché diventiamo tutti parti e membra dello stesso corpo, se ci nutriamo tutti del corpo di Cristo. È il legame d’amore con Dio che viene così ristabilito ed è il legame d’amore fraterno che regna tra gli esseri umani se, come membri dello stesso corpo, siamo tutti al servizio gli uni degli altri. Ora, non sarà facile vivere questo nella nostra vita quotidiana, per questo dobbiamo nutrire il nostro amore e chiedere a Dio di aiutarci a raggiungere questa unione, questa comunione. Il fatto stesso di accettare di condividere lo stesso cibo, di sedersi alla stessa tavola, è un gesto che ci unisce al di là delle nostre divisioni e inimicizie. Già in questa assemblea possiamo sperimentare un momento di pace, assaporare la gioia del cielo, partecipando a questo banchetto nuziale in cui celebriamo l’amore che ci unisce a Dio e gli uni agli altri. Questo è il settimo giorno, il giorno in cui vogliamo vivere sulla terra come si vive in cielo, dove il regno dei cieli scende in noi. In questo giorno, ci asteniamo da tutte le azioni malvagie e cerchiamo di raggiungere il nostro prossimo. Ascoltiamo la Parola di Dio, leggiamo la Bibbia e ci nutriamo di essa, che ci invita ad andare incontro al nostro prossimo. Ci presentiamo a Dio affinché Lui ci purifichi, ci lavi dai nostri peccati e dalle nostre divisioni, e poi ci accolga come pane, come grani di frumento che diventeranno membra del Suo stesso corpo, uniti dal Suo amore. Una volta presentata l’offerta, recitiamo la preghiera che ci ha trasmesso, riconosciamo che tutti noi, tutta l’umanità, abbiamo un unico Padre e gli chiediamo di aiutarci a manifestare la sua santità attraverso le nostre azioni, facendo la sua volontà in terra come in cielo, amandoci gli uni gli altri come fratelli e sorelle. E così il Suo Regno si instaura, entrando nei nostri cuori dove diventiamo uno, nei nostri cuori dove accogliamo l’intera umanità. Allora Lui sarà il nostro pane quotidiano, allora Lui potrà essere il nostro cibo, Lui potrà dimorare in noi e noi in Lui. Ci perdonerà tutti i nostri debiti e noi faremo lo stesso con il nostro prossimo, in modo che il male sarà sconfitto e noi saremo liberati. (Vedere l’articolo Matteo 6, 9-13 Padre nostro).
Dopo aver detto il Padre Nostro, siamo pronti ad offrirci l’un l’altro questa pace, questo amore che viene da Dio, ci abbracciamo, ci riconciliamo e poi accogliamo questo cibo che ci farà crescere nell’amore e ci darà la forza di amare il nostro prossimo nella nostra vita quotidiana.
(Per un resoconto più completo del pranzo di alleanza nella Bibbia e dei suoi legami con la cena eucaristica di Gesù, vedere l’articolo Il pranzo eucaristico).
Frase del Padre Nostro:
Non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male.

La trasfigurazione. Mosaico di Sant’Apollinare in Classe, Ravenna (VI secolo). Una visione della resurrezione, della vittoria di Cristo sul male e sulla morte, viene data agli apostoli prima che entrino a Gerusalemme, dove Cristo sarà messo a morte. Sulla cima del Monte Tabor, contemplano il volto di Cristo, che ora splende come il sole e le sue vesti come la luce. Gesù parla con Mosè ed Elia e gli apostoli provano una grande felicità. Questo mosaico ci mostra il mondo riconciliato da Cristo, una visione della pace eterna, della vittoria della luce sulle tenebre, attraverso la croce di Cristo, sopra la quale è scritto: “Salus mundi”, salvezza del mondo.
Avendo chiesto a Dio di nutrirci con il pane della Sua Parola, di nutrirci unendoci al corpo di Cristo, che è la Parola di Dio fatta carne, una volta uniti al Suo stesso corpo, possiamo condividere la sua relazione filiale con il Padre, colmati dall’amore che il Padre ha per suo Figlio e riempiti dello stesso amore per Lui. Proprio come Gesù che è venuto per fare la Sua volontà, fiduciosi nella benevolenza di quella volontà che ci porta a vivere l’amore più grande, a dare la vita per il prossimo, nutriti dal pane disceso dal cielo, assimiliamo la Sua presenza in noi, proprio come le membra del corpo sono animate dallo stesso spirito, sono unite alla stessa testa. Allora possiamo portare gli uni sugli altri lo stesso sguardo che Gesù rivolge a ciascuno di noi: sguardo pieno di benevolenza, pronto a perdonare le offese, dopo aver chiesto prima a Dio e al prossimo il perdono per le proprie colpe, e dopo aver fatto noi stessi un passo verso la riconciliazione. Così, uniti a Dio, partecipiamo a questo banchetto di nozze, a questo matrimonio, non solo come invitati, tutti uniti nell’amore che stiamo celebrando, ma anche come sposa unita allo sposo. Diventiamo una cosa sola con Lui, mangiando il pane del Suo corpo e bevendo dal calice dell’alleanza, il calice del Suo sangue. Nel Suo sangue accettiamo il Suo amore, il Suo perdono, perché Lui ha versato quel sangue per dimostrare il Suo amore per noi, perdonandoci: “E questa giustizia di Dio, data mediante la fede in Gesù Cristo, è offerta a chiunque crede. Perché non c’è differenza: tutti gli uomini hanno peccato e sono venuti meno alla gloria di Dio, ed egli li rende gratuitamente giusti tramite la sua grazia, mediante la redenzione compiuta in Cristo Gesù”. (Romani 3, 22-24).
Il perdono che riceviamo da Dio ci permette di offrire lo stesso perdono agli altri. Sapendo che Dio ci ama per primo, il Suo amore ci riempie anche di amore per gli altri. Così, tutti uniti nello stesso amore, nello stesso corpo, chiediamo a Dio di non farci entrare nella divisione, di non separarci da Lui o dal nostro prossimo. Quando il Padre Nostro parla di tentazione, non si riferisce a tutte le nostre mancanze d’amore quotidiane, a tutto il nostro egoismo, per il quale avremo ancora bisogno del Suo perdono ogni giorno e per il quale avremo bisogno del perdono degli altri che abbiamo offeso. Questa è la nostra condizione umana, e l’umiltà di riconoscere i nostri difetti e le nostre debolezze fa parte di ciò che ci unisce, di ciò che ci fa riconoscere che siamo membra dello stesso corpo e non superiori gli uni agli altri. Avremo queste tentazioni e debolezze ogni giorno della nostra vita, e ogni giorno della nostra vita sarà importante riconoscerle e chiedere perdono a Dio e a coloro che abbiamo offeso. Ma quando chiediamo a Dio di non indurci in tentazione, gli chiediamo di proteggerci da tutto ciò che potrebbe separarci da Lui. Se commettiamo una colpa, ma poi chiediamo perdono, siamo ancora in una relazione filiale con Dio e in una relazione fraterna con il nostro prossimo. Essere separati da Dio, dall’amore del prossimo, è qualcosa di diverso dalle tentazioni della nostra vita quotidiana, dalle debolezze della nostra condizione umana. Il giorno della grande tentazione di cui ci parla la Bibbia fu quando il popolo ebraico, che aveva ricevuto l’aiuto di Dio che lo aveva liberato dalla schiavitù dell’Egitto, si chiese: “Il Signore è in mezzo a noi, sì o no?” (Esodo 17, 7). È quando il legame, la relazione, il dialogo con Dio si interrompe, si ferma, che siamo separati da Lui, tagliati fuori dalla fonte della vita. Anche se non comprendiamo la volontà di Dio, anche se siamo ribelli e arrabbiati con Lui, l’importante è non interrompere la relazione, il dialogo. Nella Bibbia, abbiamo il libro di Giobbe, un uomo che non era ebreo, ma che era in costante dialogo con Dio, ringraziandolo per ciò che la vita gli dava e per ciò che gli toglieva. Diceva: “Il Signore ha dato, il Signore ha tolto: sia benedetto il nome del Signore” (Giobbe 1, 21).
Poi subì molte catastrofi, perdendo i suoi beni, la sua salute, i suoi figli. La sua stessa moglie gli disse allora che avrebbe fatto meglio a maledire Dio: “Perseveri ancora nella tua integrità! Maledici Dio e muori” (Giobbe 2, 9). Allora Giobbe, esasperato dalla vita e da coloro che lo circondavano, si arrabbiò e rivolse a Dio violenti rimproveri. Dio gli rispose: è vero, non poteva capire il mistero dell’esistenza di questo mondo e forse non era ancora in grado di vedere e contemplare la vittoria della luce sulle tenebre e il modo in cui Dio è all’opera per salvarci da queste tenebre, dal male e dalla morte. Giobbe non interruppe la relazione, il dialogo con Dio; anche se era arrabbiato, Lo rimproverò, ma non si allontanò da Lui. Fu così gratificato dalla presenza e dalla parola di Dio, che lo rassicurò e gli fece intravedere questa vittoria sul male. Naturalmente Giobbe non era ancora in grado di contemplare la vittoria di Cristo in tutta la sua chiarezza, ma Dio gli ricordò che Lui è l’origine di tutte le cose, ed è a Lui che stiamo andando, e con la Sua potenza saremo vittoriosi su tutto il male e sulla morte. Gesù manifestò questa vittoria ai suoi apostoli, che ne testimoniarono con la loro propria vita. I fedeli vedono e contemplano questa vittoria con gli occhi della fede, illuminati dalla parola del Vangelo che gli apostoli hanno trasmesso, illuminati dalla testimonianza di migliaia di uomini e donne che, come Gesù, hanno osato rischiare la vita per amore del prossimo e per la giustizia, confidando nell’amore e nella sua vittoria sul male e sulla morte. Fiduciosi nella relazione eterna che ci unisce a Dio e gli uni agli altri. “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo ma poi non possono fare niente di più”. (Luca 12, 4), ci ricorda Gesù. Il vero pericolo sarebbe quello di essere privati dell’amore eterno. Coloro che sono stati fedeli fino alla fine, coloro che sono stati preservati dalla tentazione di rinnegare Dio, di allontanarsi da Lui, hanno ricevuto il Suo aiuto nei momenti di prova, e il male, l’odio e il desiderio di vendetta contro i loro nemici non hanno prevalso nei loro cuori. Al di là della loro morte, hanno portato frutto, come stelle, hanno brillato nell’oscurità e illuminano la nostra vita, incoraggiandoci a cercare le realtà celesti, eterne, l’amore che non passerà mai. Così San Paolo, perseguitato ma perseverante nell’amare anche i suoi nemici, testimonia: “[L’amore] sopporta ogni cosa, confida in ogni cosa, spera in ogni cosa, sopporta ogni cosa. L’amore non passerà mai”. (Corinzi 13, 7-8).
E anche la sposa del Cantico dei Cantici chiede che l’amore la infiammi per sempre, più forte della morte, eterno:
“Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio. Perché l’amore è forte come la Morte, il suo ardore è tenace come l’aldilà: le sue fiamme sono fiamme di fuoco, una fornace divina. Le grandi acque non possono spegnere l’amore, né i fiumi lavarlo”. (Cantico dei Cantici 8, 6-7).
Quindi Gesù ci esorta: “Vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate veramente figli del Padre vostro che è nei cieli; perché Egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e manda la pioggia sui giusti e sugli ingiusti. Perché se amate coloro che vi amano, quale ricompensa meritate? Non fanno lo stesso anche i pubblicani? E se salutate solo i vostri fratelli, quale cosa straordinaria fate? Non fanno lo stesso i popoli delle altre nazioni? Voi, dunque, sarete perfetti, proprio come è perfetto il vostro Padre celeste”. (Matteo 5, 44-48).
In questo modo, il Padre Nostro traccia l’intero percorso di fede, durante tutta la nostra vita, e alla fine, dopo aver perdonato coloro che ci hanno offeso, siamo preservati dalla tentazione di cedere all’odio e alla vendetta, la tentazione di allontanarci da Dio. Allora, rimanendo umilmente in dialogo, nonostante la nostra impotenza, nonostante la nostra mancanza di comprensione, saremo vittoriosi sul male, condivideremo la vittoria di Cristo sulla morte, saremo liberati dal male (vedere anche l’articolo Matteo 6, 9-13 Padre nostro).